A me il gusto di banane e latte mischiati assieme fa schifo. Tanto schifo che non ho nemmeno bisogno di assaggiarlo. Non fa per me. Lo lascio a voi. Ed è questo il motivo per cui oggi non posso considerare Abu Shaker soltanto il venditore di frullati più famoso di Damasco. Abu Shaker per me è e sarà per sempre quel maledetto sciamano che prende una banana, la mette nel bicchiere del frullatore, ci versa dentro la panna del latte, frulla, mi porge il bicchiere, e io bevo. Bevo, e quelle banane e quel latte mischiati assieme, voi non ci crederete, mi piacciono da impazzire.
Ecco, la Siria dell'estate del 2010 aveva quel gusto lì. Aveva il gusto inopinatamente buono di banane e latte. Aveva il gusto di cose mischiate assieme con tale maestria che quando le provavi sembravano nate così, colte di fresco da un assurdo albero di frullati perfetti.
I rumori del giorno a Damasco sono tanti, decisamente troppi per poterli isolare, registrare e conservare da una parte. È passato un po' di tempo ormai e due cose mi ricordo: il caos, e "quell'altro rumore". "Quell'altro rumore" s'è aggrappato, è sopravvissuto alle pieghe disordinate della mia memoria. Me lo ricordo perché estraneo alla scena. Laterale. Lo rammento per la sua strenua volontà di non amalgamarsi.
Le voci della medina coprivano ogni cosa, come una specie di pesante doppio fondo. Il modo in cui opprimevano la folla le rendeva qualcosa di profondamente diverso da un suono. Erano piuttosto una nuova soglia di silenzio. E oltre quel silenzio, io l'ho percepito. Ho sentito quel nuovo ed unico suono. Via le voci, via lo scalpiccio. "Clang! Clang!" Poi nulla. E ancora: "Clang!" Metallo. Metallo contro il selciato. "Clang!" Metallo, no: lamiera. Lamiera calpestata che batte sul lastrico. Svoltai l'angolo e il mistero si sciolse. Quello che sovrastava tutti gli altri era il suono dello sgomento e della protesta. Il suono di quella protesta che fa rumore ma non fa del male. Era il suono di una bandiera bianca e azzurra: due strisce ed una Stella di David dipinte su quella lamiera gettata in strada. Era il suono di piedi che con fermezza e dignità, calpestandola, si ribellavano al raid israeliano che poche ore prima aveva calpestato le vite di uomini, donne e bambini della striscia di Gaza. Qualunque parola di rabbia e sconforto sarebbe stata sovrastata, zittita, rubata, fraintesa e inghiottita dal rumore bianco della medina. Le ragioni di quei piedi, invece, restano scolpite per sempre nelle mie orecchie. Erano i piedi dei siriani nell'estate del 2010.
Il suq di Damasco è un labirinto da esplorare col naso all'insù.
Passeggiavo e intorno a me gli odori si sprecavano. Il profumo dalle merci era la vetrina, l'insegna di ogni bottega. Spezie, sapone, profumi. Niente cibo in quei giorni nel suq di Damasco. Era Ramadan: tra le bancarelle non si sarebbe mangiato o bevuto nulla fino al tramonto.
Passeggiavo, lo stomaco brontolava all'avvicinarsi dell'ora preposta a riempirlo. Il naso teso nello sforzo di cogliere un possibile sollievo per la fame che montava. Venne il momento in cui le narici, decise, presero il sopravvento. Un breve conciliabolo con occhi e piedi, ed un rapido golpe sensoriale fu felicemente concluso.
Il naso decise d'impeto di trasportarmi altrove, fuori dal gran mercato. Di portarmi lontana da quei profumi privi della sostanza di cui avevo bisogno. I piedi seguirono fiduciosi il nuovo leader acclamato da folle di cellule festanti. Ed eccolo, finalmente, a riempire l'aria come fosse stato lì da sempre. Quel profumo di carne arrosto, di salse e di pane caldo. Ero nel quartiere cristiano.
Perché se non lo sapete ve lo dico io che a Damasco allora c'erano tutti. Ognuno viveva e pregava e ritornava a vivere secondo le scelte dei propri antenati. Luci al neon divinamente kitsch distinguevano i culti. Blu le chiese, verdi le moschee, rossi i templi ebraici.
Svoltai l'ultimo angolo ed il potente profumo acquistò forma e sostanza nella bottega di shawerma che mi si spalancava davanti. Lo shawerma: un miracolo sugoso pronto per essere addentato da chiunque ne avesse avuto voglia. Perché il Ramadan, là, non era un'imposizione: era soltanto una scelta libera e coraggiosa, nella torrida estate del 2010 a Damasco.
I siriani sono cocciuti. Nel loro modo di fare c'è qualcosa di invitante ma perentorio.
Il popolo siriano è forte e risoluto. Il popolo siriano somiglia alle mani di Mohammed. Somiglia a quelle mani che mi sollevano di peso oltre il buco vuoto del gradino franato lungo una scala a chiocciola vecchia di millenni. Sono un appiglio nell'arrampicata. La stretta delle sue mani attorno alla vita è la sicurezza che per qualche attimo deve sostituirsi alla consueta certezza che era e sarebbe stata ancora il contatto della pietra sotto alle suole.
Eravamo nel Tempio di Baal a Palmira. Mohammed, 27 anni e faccia sincera, ne era il custode. Prima di lui lo era stato suo padre e ancora prima suo nonno. La sua famiglia aveva badato a quelle pietre per oltre un secolo e mezzo e le pietre resistendo al vento e al deserto li ringraziavano. Era tardi, era buio. Dopo una lunga chiacchierata in un inglese un po' stentato e un po' inventato, Mohammed decise che dovevo assolutamente salire sul tempio con lui. Entrammo da un ingresso secondario in quella che doveva essere stata la sala principale. Davanti a noi un muro: sembrava non esistere alcun percorso. Nessuna fenditura, a meno di non sapere dove cercarla. Ma lui sapeva, e assieme varcammo la soglia. Dietro, la scala. Gradini enormi. Vecchi. Alcuni avevano ceduto. Con le mani di Mohammed strette attorno ai fianchi, e le mie che cercavano appigli nel calcare ruvido, un balzo dopo l'altro raggiunsi la cima. Mi inginocchiai per affacciarmi al balcone che sovrastava il vuoto della grande sala. Il tetto era un ricordo dei secoli passati. Sentivo il tempio sotto di me. Davanti la strada romana. Mi strinsi più forte al parapetto e con esso a tutta la storia a cui era sopravvissuto quel paese, scolpita nella pietra e nelle mani forti dell'ultimo custode del Tempio. Dall'inizio dei
secoli, e fino all'estate del 2010.
Ho visto molte cose nel mio viaggio in Siria. Ho visto Damasco: la Grande Moschea, quartieri vecchi e nuovi, il piacevole miscuglio di persone diverse ma ben amalgamate a spasso per le strade. Ho visto Hama: le imponenti norie in continuo lento movimento e il placido fiume che ancora le unisce. Ho visto Aleppo: ho visto la cittadella e poi Aleppo dalla cittadella. Ho visto Palmira: le sue rovine accanto ai colori di una cena beduina. Ho visto ovunque il volo dei colombi ammaestrati; li ho visti alzarsi in volo tutti assieme in un moto solo all'apparenza casuale al comando di una bacchetta capace, mossa nel vento; li ho visti volare e, assieme, planare. Pacifici. Ho visto i cavalli, le mucche e le galline pascolare assieme tra le pietre sotto l'occhio vigile e meticoloso di un esperto pastore dai denti da latte.
Sulla strada che collega Damasco ad Aleppo, ho visto le Città Morte. Ho visto mura, case, strade e stanze. Le ho viste vuote, abbandonate all'improvviso secoli fa. Il motivo ed il momento esatto della fuga di un popolo ancora oggi resta oscuro: nessun telegiornale mostrò quelle disgrazie, allora. I telegiornali la mostrano oggi, la Siria in fuga, poco dopo quell'estate del 2010.
Questo ci permetterà di stabilire il "quando" delle Città Morte di domani. Resterà forse da capire il perché.
Sì, ma le foibe ?
RispondiElimina- Nobel SUBITO -
Concediteli più spesso questi OT...Thumbs Up.
RispondiEliminaGrazie Dan!
EliminaQuesto è più o meno il pezzo che ho letto l'altra sera a Perugia (là per motivi di tempo l'avevo un po' tagliuzzato).
Ce l'avevo pronto da un po' e non sapevo bene cosa fosse. In tanti avevano detto che dovevo "farne qualcosa" ma non sapevo bene cosa. Alla fine forse bastava metterlo qua. :)
Succede sempre così, alla fine, coi blog: tu ti metti a scrivere pensando di sapere dove vuoi andare e invece poi è il blog che comincia a portarti dove vuole lui...
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