mercoledì 30 maggio 2012

(OT) Il giorno in cui l'Italia tremò

Oggi volevo raccontarvi di quella volta che l'Italia tremò, di quella volta che fu la cosa migliore che mai le fosse capitata.

Era una bella giornata di sole. Tiepida quanto basta per starsene a ciondolare con la scusa del caldo, ma non tanto da patirlo per davvero. Calmo anche il vento. Giusto qualche refolo a rinfrescare la siesta. Era una di quelle giornate in cui starsene a ciondolare nel dopopranzo quei cinque minuti in più, senza pensare al ritorno in ufficio, in classe, in casa per le faccende. Era una giornata così quieta che il ronzio nell'aria si avvertì da subito. Un brontolio soffocato, un'eco lontana. Da qualche parte qualcosa sussultava. Ma dove? Le persone per strada si guardavano l'un l'altra stranite: il timbro era stonato per quel suono soffuso. Pareva l'impronta di un boato remoto. Da qualche parte qualcosa si agitava e si contorceva, si divincolava e tremava. Ecco, sì: era il riflesso di un tremore lontano. Un tremore sordo, costretto in uno spazio chiuso. Ma dove?

I cittadini allora scesero nelle strade. Un po' impauriti, un po' curiosi. Un po' perché tutti scendevano. 
Sul momento nessun indizio fu trovato riguardo la provenienza del rombo. Alcuni tornarono in casa, circospetti, spiando gli stipiti delle porte e delle finestre, gli spigoli, i muri a cercar crepe. Perché il boato strozzato era quello tipico del terremoto. Un terremoto infinito e immobile, ma inconfondibile nel suono. Nessun danno però trovarono nelle case. Tornarono fuori, e dietro al suono si misero in cammino.

C'erano posti, è bene dirlo, in cui il rumore si faceva più intenso. Ce n'era in ogni città di quei posti così. E poi era più forte nelle città grandi; soffocato, invece e simile ad un soffio all'orecchio nei piccoli centri. In molti dopo un poco iniziarono a sopportare a fatica quel tuono, quel rombo sordo, e in tanti si misero placidamente ad inseguirlo, nella sola speranza di trovare un sistema per spegnerlo. 
In lunghe file ordinate procedevano, in ogni abitato. Si guardavano attorno, le mani alle orecchie, assieme verso la fonte del mistero. Fiumi di gente guardinga si riversavano nelle vie e procedevano verso il centro dei paesi, delle città e delle grandi metropoli. Si incontravano alle confluenze.
Coglievano negli occhi degli altri il loro stesso dubbio, lo stesso sgomento. Lo ritrovavano nei gesti di quelli che incrociavano. I fiumi umani si univano, si ingrossavano lungo vie e viali sempre più ampi. Erano sempre di più, il rumore sempre più forte.
Infine arrivarono. Venne il momento in cui tutte quelle processioni improvvisate, quei fiumi silenziosi che controcorrente tentavano di risalire alla fonte di quel suono misterioso, si ricongiunsero. Accadde in ogni paese, in ogni città, in ogni grande metropoli. Si unirono, assieme si guardarono attorno, assordati dal fragore. 

Quel che videro fu lo stesso in ogni luogo: milioni di persone per un momento trattennero il fiato, alzarono all'unisono gli occhi e li posarono sulle bandiere immobili che, nella calura del primo pomeriggio, ammantavano i balconi dei municipi, delle sedi di provincie e regioni. Tutto fermo, come schiacciato dal frastuono che, ormai era chiaro, nasceva a pochi metri da loro, oltre i muri sottili di quelli che al telegiornale chiamavano i "palazzi delle istituzioni".

A Roma il fiume più grande, attirato dal misterioso pifferaio, si ritrovò davanti al Parlamento.
Tutto il popolo, ovunque, stava in attesa, assordato dal rombo che continuava. Veniva di là, veniva dal Senato, veniva dalla Camera e dalla sede del Governo. 
Al rumore sordo ora, da vicino, si aggiungevano altri suoni. Suoni di gente, suoni disperati. Urla disumane, urla di dolore, panico e rabbia. Molta rabbia.
I cittadini, benché atterriti, iniziarono allora a chiamare i soccorsi: chiamarono i pompieri, chiamarono la polizia, la Protezione Civile. Chiamavano i soccorsi, ma quelli non arrivavano. E non arrivavano perché anche pompieri, poliziotti e soccorritori in quel momento erano gente, e con la gente stavano davanti al Parlamento con il naso per aria, in attesa. E fu allora che, vedendo che nulla sembrava smuoversi là fuori, qualcuno provò ad entrare dentro. Entrarono a Montecitorio. Per capire. Per vedere. Per aiutare.
In molti varcarono la soglia.

Lo spettacolo era raccapricciante. La fonte del frastuono stava là, davanti agli occhi sbarrati degli avventori. E non era il fuoco, non era il terremoto. Non erano i muri che si accartocciavano su se stessi come troppe volte era successo a tutti loro. Come succedeva a loro quando il rombo sordo del terremoto, dell'alluvione, della povertà veniva da fuori, e solo il silenzio usciva da dentro quegli spessi, vecchi muri.

Ora ce l'avevano davanti. Il frastuono erano poltrone. 
Decine, centinaia di poltrone schizzavano impazzite per le sale e per i corridoi. Il popolo si arrestò. Rimase ad osservare, muto. Osservava le decine, le centinaia di deputati, ministri, consiglieri comunali e regionali, sindaci, assessori e sottosegretari.
Li guardavano contorcersi e dimenarsi. Li guardavano mentre, aggrappati a quelle poltrone più che alla loro stessa vita, finivano schiacciati e dilaniati dalle sedie impazzite. Nessuno cercava scampo, nessuno tentava la fuga verso la salvezza, lì, a due passi. Nessuno rialzava i caduti.
Il popolo li guardò spegnersi uno dopo l'altro, attaccati con l'ultimo spasmo di muscoli disabituati al moto, ognuno alla propria seggiola. Il ghigno del trionfo fissato per sempre sui volti sfigurati dalla lotta e dal terrore.
Poi, così come se n'era andato, d'improvviso il silenzio tornò. 

Nessuno si salvò dal terremoto delle poltrone. Nessuno lasciò la presa per salvare se stesso o il vicino. 
Il popolo uscì dai palazzi e tornò a riempire le strade. Tornò alle proprie occupazioni. Tornò al proprio ufficio, tornò alla propria classe, tornò alle faccende.

Niente di sconvolgente era successo. Niente, se non una metafora che si era fatta cronaca, e nemmeno delle più avvincenti. Quella sera non ci furono edizioni speciali dei tg a raccontare la vicenda: i direttori non sapevano come riempire, negli studi ormai troppo grandi, quelle poltrone che ora anche loro guardavano con sospetto. Provarono ad invitare i testimoni, tutte le persone che avevano assistito alla strage, ma quelle non
vennero. Avevano cose più serie a cui pensare, ora che il rombo di un pomeriggio aveva spazzato via il chiacchiericcio di molti decenni. Volevano goderselo, quel silenzio, sapendo che non sarebbe durato poi molto.   
  

E allora basta. Smettiamola una buona volta di lamentarci se quelle persone di là da quei muri, dentro quei palazzi, non sono capaci a salvarci nel momento della crisi (qualunque crisi): con buona probabilità quelle  persone verso cui allunghiamo ogni volta le braccia, speranzosi, quelle povere persone non sarebbero in grado di salvare se stesse.

6 commenti:

  1. Risposte
    1. Prego! E grazie a te per il commento. :)
      Dopo aver letto un po' di giornali qua e là, diciamo che si è scritto praticamente da solo.

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  2. Cavoli, mi hai letto nel pensiero. E me l'hai reso un capolavoro! Grandissimo post.

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    1. Grazie di cuore. Speravo davvero di leggerti tra i commenti, ed eccoti qua. :)

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  3. Ma falli più spesso OT del genere...ti vengon davvero bene.

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